Everything everywhere all at once, il trionfo del digitale nei multiversi dell’amore
“Everything everywhere all at once” da oggi nelle sale italiane. Diretto da Daniel Kwan e Daniel Scheinert con Michelle Yeoh, Jamie Lee Curtis e Jonathan Ke Quan. Distribuito da A24

“Everything everywhere all at once” da oggi nelle sale italiane. Diretto da Daniel Kwan e Daniel Scheinert con Michelle Yeoh, Jamie Lee Curtis e Jonathan Ke Quan. Distribuito da A24.
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La trama del film
Una madre cinese, Evelyn (Michelle Yeoh) immigrata in America, sua figlia, suo marito (Jonathan Ke Quan) e il padre gestiscono una piccola attività commerciale di lavanderia; una famiglia tradizionale che vive il suo presente, il suo piccolo mondo della quotidianità, ma che verrà sconvolto nel momento in cui quella piccola finestra di realtà che è l’esistenza si aprirà alla conoscenza delle infinite altre possibilità dell’universo, quindi di sé stessi e della propria identità. La madre così attraverso uno specifico mezzo tecnologico vivrà altre vite immerse oltre la cornice dello spazio e del tempo, oltre la conoscenza del se. Da questo contatto inedito con i volti dell’universo la sua natura verrà sdoppiata per rinascere all’interno della medesima cornice esistenziale, cioè nello stesso corpo, ma con nuove abilità e discipline. Così la madre diviene un abile custode dell’arte del kung fu, un’eroina predestinata a salvare l’equilibrio cosmico, cioè la struttura invisibile e iper connessa dell’universo.
Il nuovo doppio cinematografico
I registi aprono le porte della percezione allargandone l’orizzonte al punto da fondere le nozioni della realtà con quelle delle potenzialità del reale. Offrono quindi allo spettatore l’esperienza carnale e percettiva dell’universo, inteso come un sistema esteso all’infinito, non univoco ma eternamente multiplo e connesso. La vita diventa vite, l’opera diventa opere, ogni elemento del mondo di cui i protagonisti faranno esperienza muta per natura e forma in altro; gli oggetti, il tempo, gli spazi e finanche la loro stessa identità. Un gioco di doppi a cui l’immagine cinematografica è geneticamente legata sin dalla sua nascita, ma che ora, con l’opera dei fratelli, intende esplorare un livello più profondo di significazione. Se infatti prima l’immagine raddoppiava il soggetto in quanto figura assente-presente ora si impone di fare lo stesso ma estendendosi oltre quel soggetto. Non ne crea quindi solo un doppio ma infinite altre sue immagini e vite. Proiettate queste in una catena reticolare di relazioni fluide con i molti universi che la nuova immagine cinematografica ora può rappresentare contemporaneamente.
L’immagine digitale: un organo vitale
Stiamo parlando, o meglio lo sta facendo il film, della trasformazione dell’immagine cinematografica analogica in quella digitale. Le cui potenzialità tecniche inesplorate diventano ora materia di riflessione rivolte a quelle umane. L’incontro tra uomo e meccanica è infatti centrale all’interno del film. La madre cinese entra in contatto con gli altri universi proprio attraverso un dispositivo. Quindi la sua esperienza è monitorata dall’esterno, dal controllo meccanico, la cui funzione offre una sintetica ed efficace rappresentazione del reticolare sistema dell’universo. Tutto è iper connesso, come un organo vitale le cui cellule muoiono e nascono secondo un processo di immortale continuità; le vite degli uomini divengono così granelli di sabbia in un oceano di già realizzate possibilità d’esistenza. Un fluido corso di vita dove il senso dell’individuo sembrerebbe sparire, inglobato da una rete estesa oltre la sua volontà, oltre sue scelte.
L’arte dell’archivio e della manipolazione
Il film attraverso l’uso delle tecniche cinematografiche offre una potente esibizione della natura reticolare dell’immagine digitale. Ogni elemento infatti si trasforma nelle infinite possibilità dei suoi doppi. Questo in relazione alla qualità del digitale di manipolare le immagini. Oltre la qualità manipolatoria delle tecniche digitale merge anche quella alla base della nuova natura digitale del dispositivo: quella archivistica. Il film costituisce infatti un meta archivio a tutti gli effetti, dove ogni esistenza è inserita all’interno di un sistema potenzialmente aperto all’infinito. Una documentazione dell’universo quindi all’interno della quale tutto è registrato e dove tutto è presente e reale allo stesso tempo. Da qui il titolo del film che sembrerebbe costituire una dichiarazione d’intenti dei registi; “Tutto dovunque e allo stesso tempo”. Un titolo quindi che racchiude la natura intrinseca alla tecnologia del digitale e che la proietta nella costruzione di un racconto cinematografico che ne rispecchia la natura fluida.
L’amore come unità dell’infinito
Ma cosa garantirebbe in ultima analisi un senso all’esistenza se questa altro non è che una piccola parte inglobata all’interno di un sistema geneticamente illimitato ed aperto? Se gli universi paralleli esistono è perché vivono, mossi dal rapporto di ogni singola parte che li costituisce, quindi da un motore invisibile che è alla base di ogni connessione, di ogni vita, di ogni storia possibile; il film identifica questa energia eterna con l’amore. Il sentimento umano cioè che nutre il senso ultimo di ogni legame vitale.
Una connessione isolata
Tuttavia se l’opera offre una magistrale qualità tecnica e spettacolare non riesce a tenere insieme il frammento con l’unità. Nella ricerca ossessionata del tutto, che non manca della componente estetica, l’opera sfugge all’ideale della rappresentazione. Questo perché proiettando lo spettatore verso la percezione di ciò che si estende oltre la vita sensibile non lo riconduce all’origine del suo viaggio, ma lo lascia sospeso e frammentato così come l’immagine che mette in scena. L’amore, tema a cui l’opera affida l’unità del tutto, non riesce a garantirla però al soggetto, cioè all’individuo. Ogni distruzione ha bisogno di una ricostruzione, o meglio il destino ultimo stesso della distruzione dovrebbe risiedere nella ricerca di un nuovo equilibrio; equilibrio che qui sembrerebbe fuggire tra le reti di quei molti universi, connessi tra loro ma con lo spettatore.
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Classe 1996 , laureato presso la facoltà di lettere e filosofia. Il mio interesse per l’arte, declinata nella forma dell’immagine, ha suscitato in me il desiderio di osservarla e amarla attraverso una continua ricerca e analisi delle sue forme e significati. Influenzato dalla magia del rito teatrale ricerco nel cinema quella stessa capacità di trasportare lo sguardo dello spettatore aldilà della rappresentazione.