“Figlio dell’impero britannico” di Jane Gardam – La recensione
Last Updated on 19/12/2019
Esce in Italia il romanzo dell’autrice inglese Jane Gardam, il primo della trilogia che segue la vita del giudice Edward Feathers

L’impero coloniale inglese è il vero protagonista di questo romanzo, scritto da Jane Gardam, classe 1928, e pubblicato in originale nel 2004 e quest’anno in traduzione italiana. La storia del giudice Edward Feathers e del suo percorso di vita a cavallo del secolo breve è una grande metafora dell’ascesa e declino di un impero, e in generale del colonialismo britannico otto-novecentesco. Si tratta di una storia di rovine, insomma, un rivangare all’indietro in un passato che è al tempo stesso una ricerca disperata di radici (private e culturali) che può attuarsi soltanto attraverso una forte revisione ideologica
Failed in London, try Hong Kong
Edward Feathers, ma per tutti è Old Filth, vecchia schifezza (il gioco di parole è però più sottile, ché Filth è acronimo per Failed in London, try Hong Kong: fallito a Londra, prova a Hong Kong) è in tutto un arci-inglese, pur essendo un “figlio del Raj”, un cittadino britannico nato nelle colonie, cresciuto senza mai mettere radici tra i territori dell’estremo oriente e la madrepatria: due punti estremi ma altrettanto lontani. Sempre pulito ed ordinato, capace di tenere a freno qualsiasi esternazione di sentimento (è dote di famiglia) che vada più in là di avere le scarpe lucidissime e la camicia “talmente bianca da sembrare azzurra”.
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È questo il principale sfasamento su cui fa perno il romanzo: un suddito, e un suddito di rilievo (“l’icona dell’allegro foro di Hong Kong”), di quello che era il più grande impero del mondo moderno che si sente assolutamente spaesato, ovunque esso si trovi: che sia la Malesia dove è stato cresciuto tra le balie e gli abitanti locali, e guardato distrattamente da un padre assente e anaffettivo, o che si tratti dell’Inghilterra della formazione adolescenziale (perché è bene che i sudditi di sua maestà nati oltremare tornino in madrepatria a educarsi), o del definitivo ritiro, dopo una vita passata ad Hong Kong.
“Non ho background…”, la contraddittorietà di “Figlio dell’impero britannico”
La contraddittorietà, a pensarci bene, è quella del colonialismo stesso, che si tratti degli anni di massimo fulgore del British Empire, o che siano quelli della sua inevitabile decadenza. E la decadenza è non solo politica, ma anche e soprattutto psicologica, personale (“Non ho background. Sono stato spogliato del mio background. Mi hanno appiccicato addosso un altro background”). Da questo punto di vista il concetto stesso di colonialismo è messo in discussione (e la questione non riguarda certo la sola Gran Bretagna, ma potrebbe essere esteso a tutte le nazioni europee che tra il XIX e il XX secolo cavalcarono l’impresa coloniale); se ne indagano le conseguenze psicologiche, che non possono non essere anche e necessariamente politiche.
I “figli dell’impero britannico” non fanno fatica a riconoscere le loro tare: “È per via del modo in cui sono stati cresciuti. La maggior parte di loro ha imparato a non voler mai bene a nessuno, mai, per tutta la vita. Non si lamentavano perché avevano la rete di sicurezza, l’Impero Britannico. Dovunque andavi rappresentavi la corona, e ovunque trovavi qualcuno come te. Un club. Ce ne sono ancora migliaia in giro convinti che il mondo sia loro”.

Ripensare Kipling
È, in un certo senso, un romanzo anti-kiplinghiano questo Figlio dell’Impero Britannico: l’autore di Kim e del Libro della giungla (ma non dimentichiamolo anche del famigerato Il fardello dell’uomo bianco, manifesto dell’imperialismo di fine Ottocento) aveva cantato la grandeur e soprattutto la legittimità di un impero che pareva intramontabile; il romanzo di Jane Gardam espone, al contrario, il punto di vista dei colonizzatori ad una attenta e spietata revisione post-coloniale (e ne rovescia il senso che aveva in Kipling), mettendone a nudo la fragilità prima di tutto psicologica (psico-geografica, potremmo dire: l’Impero è una landa fredda i cui rampolli sono lasciati soli con le loro nevrosi), e facendo emergere il rigore formale di una istituzione aggressiva, sotto ogni punto di vista, nella sua calma rigidità.
La prosa è garbata e piana (“è un romanzo vittoriano scritto all’inizio di questo secolo”, scrive Chiara Valerio nella sua Nota a fine volume), e pur non essendo priva di quello humour che riesce a scaturire soltanto dalla impeccabile compostezza dei figli di Albione, non può fare a meno di essere, nonostante tutto, implacabilmente apocalittica, nella sua descrizione di uno sfacelo culturale (come sempre è il colonialismo) e di un crollo che non può che lasciare ferite aperte (nel privato e nel pubblico).
La storia del giudice Feathers è ricostruita per lampi di memoria, e la narrazione si muove avanti ed indietro nel tempo incastonando gli episodi e i personaggi in maniera non lineare, pur rimanendo sempre stilisticamente cristallina. Il romanzo, nella sua apparente freddezza tratta un argomento, quello del colonialismo, ancora scottante e soprattutto (spesso) abilmente rimosso, ma le cui conseguenze disastrose sono ancora davanti agli occhi di tutti.
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“Come saremmo colti se conoscessimo bene solo cinque o sei libri”, scriveva Flaubert.
Luca Verrelli cerca di essere un buon lettore.