Rolling Thunder Revue: a Bob Dylan Story. La recensione
Martin Scorsese torna al documentario rock (e a Bob Dylan) con un’opera riuscitissima

La cosa va detta subito e senza mezzi termini: con Rolling Thunder Revue. A Bob Dylan Story, Martin Scorsese firma il capolavoro della fase “avanzata” della sua carriera. Lo fa prendendo a prestito il genio di Bob Dylan e costruendoci sopra una sorta di “oggetto cinematografico non identificato”. Un documentario che non è un documentario (perché ingannevole) e un film di finzione che dice delle verità profonde sugli anni che descrive e sui personaggi che racconta.
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Un po’ di storia
Il Rolling Thunder Revue è stato uno dei tour più celebri di Bob Dylan. Nel 1975 il cantautore decise di riprendere la sua attività live (dopo una lunga pausa dal palcoscenico) e mise su una sorta di grande carrozzone (simile, afferma, a quelli della commedia dell’arte) in cui lo accompagnano colleghi cantanti, ma anche attori e poeti. Le personalità coinvolte sono del calibro di Joan Baez, Roger McGuinn, Allen Ginsberg, Gregory Corso, Jon Mitchell, Sam Shepard. La grande carovana di Dylan gira l’America con uno spettacolo grandioso e potente. Erano gli anni di Desire, di canzoni come Hurricane, Romance in Durango, One more cup of coffee. Sul palco Dylan le suonava con un supergruppo in uno show che in quanto a “muro di suono” poteva competere senza problemi con quello del leggendario tour del 1966 (bisogna citare almeno il violino ipnotico di Scarlet Rivera e la chitarra dell’ex Spiders-from-Mars Mick Ronson).

Maschere nude
Questo film di Martin Scorsese, però, non è un documentario, o meglio non è solo quello. “Non ricordo nulla del Rolling Thunder Revue” dice Dylan in apertura del film “non ero neanche nato all’epoca”. Al regista (e al protagonista) non interessa raccontare la verità, fare un documentario di pura ricostruzione storica. Entrambi vogliono raccontare una storia (A Bob Dylan Story, così recita il sottotitolo, e in inglese la Story non è l’History): poco c’entra la ricostruzione precisa dei fatti, le date e i luoghi. Non ci sono persone, ma personaggi, maschere (come quella che spesso indossava Dylan sul palco durante il tour, o come la sua faccia dipinta di bianco, a metà tra i Kiss e il teatro kabuki). Ognuno interpreta il proprio ruolo: Allen Ginsberg diventa l’oracolo di Delfi (commoventi le immagini dei due sulla tomba di Jack Kerouac) e Patti Smith la poetessa punk (tra lei e Dylan c’è un vero e proprio passaggio di testimone poetico). Scarlet Rivera diventa la Regina di Spade, Joan Baez la “balladeer”, e così via: la compagnia errante è al completo.
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Oltre il documentario
Il film riscrive in un certo senso la storia del mockumentary (il falso documentario, uno dei capisaldi della cinematografia postmoderna), ma si spinge oltre il genere. Nel film di Scorsese tutto è vero eppure tutto è falso (e forse non c’è niente di più dylaniano di questo). E allora ecco che le immagini di Renaldo & Clara (la pellicola-fiume firmata da Dylan e Sam Shepard e uscita a ridosso del tour) diventano materiale per uno pseudo found-footage, l’opera mai realizzata di un fantomatico regista europeo (interpretato dall’attore Martin Haselberg) che si immagina abbia seguito i concerti e documentato la vita della carovana. C’è spazio però anche per una straordinaria Sharon Stone che “recita” la propria (falsa) testimonianza, quando si dice commossa per una dedica di Just Like a Woman. Insomma la Stone non c’era, eppure eccola lì, meravigliosa, digitalmente applicata nelle foto insieme a Dylan. Il picco però del cortocircuito tra vero e falso è quando nel film viene intervistato il senatore Jack Tannen, che altri non è che l’attore Michael Murphy, il quale interpretava il senatore nel film tv di Robert Altman, Tannen 88 (altra sorta di pseudo-documentario).

Verità e poesia
Al di là del vero e del falso c’è però la musica di Bob Dylan, che resta la più lucida fotografia di quegli anni. Era l’epoca del Watergate e delle dimissioni di Nixon e della fine disastrosa della guerra del Vietnam. Anni di passaggio in cui l’ottimismo dei Sixties (ancora cavalcato all’inizio del decennio successivo) lasciava il posto alla disillusione e alla rabbia dei Seventies. La musica parla di per sé: la rabbia protopunk dell’arrangiamento di The lonesome death of Hattie Carroll (fate il confronto con l’originale) vale più di mille discorsi sugli anni del riflusso. La storia della composizione (e della diffusione) di Hurricane è uno dei momenti che meglio descrivono le storture di un’epoca (che ancora stiamo vivendo). E per fare questo non serve un documentario “serio”, serve una storia: l’intelligenza poetica è più vera del vero.
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“Come saremmo colti se conoscessimo bene solo cinque o sei libri”, scriveva Flaubert.
Luca Verrelli cerca di essere un buon lettore.
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