Dieci film per un decennio – Dunkirk
Non una classifica dei dieci migliori film, ma una sorta di “mappa” che esplora territori e indaga specificità del cinema degli ultimi dieci anni. Quarta tappa: Dunkirk

DUNKIRK, REGNO UNITO 2017. Regia di Christopher Nolan. Cast: Fionn Whitehead, Tom Glynn-Carney, Jack Lowden, Harry Styles, Kenneth Branagh, James D’Arcy, Cillian Murphy, Mark Rylance, Tom Hardy.
Nel suo primo film di guerra, Christopher Nolan consegna al pubblico un instant classic, tecnicamente impeccabile e lontano da quel pomposo patriottismo che molto spesso segna pellicole di questo genere.
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La vicenda
Maggio 1940. Quattrocentomila soldati inglesi sono sulle spiagge di Dunkerque, in Francia. Alle loro spalle il nemico è ovunque, li ha accerchiati, e l’unico ostacolo che si frappone tra i due è l’esercito francese. Davanti a loro, il Canale della Manica. L’Inghilterra è vicina, si può quasi vedere, ma forse non è mai stata così lontana. L’evacuazione non è affatto facile: i cacciatorpediniere militari sono facili bersagli per gli aerei della Luftwaffe e per gli U-boot e i soldati assiepati sul molo e sulla spiaggia sono facili bersagli senza via di scampo. Sono in trappola.

Nolan e il tempo
La firma del regista, in questo caso anche in veste di unico sceneggiatore, è chiara sin dall’inizio, nella scelta di raccontare la storia seguendo tre linee narrative e temporali differenti: sin dal suo esordio (eccezion fatta per la parentesi Batman, in cui è immaginabile che non avesse moltissimo spazio di manovra) in ogni suo lavoro Nolan ha giocato col tempo, dilatando, restringendo, riavvolgendo e frammentando le ore. In Dunkirk seguiamo tre punti di vista: il molo, il mare e il cielo, tre storie che hanno tre durate diverse (rispettivamente una settimana, un giorno, un’ora) e che si intrecciano e si incalzano fino alla fine.
I protagonisti di Dunkirk
Tommy (Fionn Whitehead) è un giovane soldato che dal molo cerca in tutti i modi di sopravvivere e scappare dall’inferno, mentre Mr. Dawson è un uomo di mezz’età (il bravissimo premio Oscar Mark Rylance) che invece di dare la sua barca alla marina militare, intenta a organizzare i salvataggi con imbarcazioni civili, decide di guidarla personalmente e prende il mare accompagnato dal figlio e un suo amico, e un pilota della RAF in volo verso Dunkerque per ostacolare gli aerei nemici durante l’evacuazione. Nel ruolo del pilota troviamo Tom Hardy, uno degli attori più in forma degli ultimi anni che, come già in Mad Max: Fury Road, riesce a dare ottima prova di sé in un ruolo di pochissime parole, reso ancor più complicato dal fatto che per il 99% del film è chiuso in un abitacolo con una maschera che lascia scoperti solo gli occhi.

La regia
Nolan compie un lavoro gigantesco nel ricostruire questo episodio meno conosciuto e meno glorioso della seconda guerra mondiale, con migliaia di comparse, imbarcazioni e velivoli d’epoca. Non dimenticando il proprio gusto per l’estetica delle immagini (in questo la grigia spiaggia francese si presta davvero bene come suggestivo scenario), il regista cerca in ogni modo il “realismo”, riducendo al minimo l’intervento in postproduzione. L’inferno di Dunkirk è vivido, in quei cieli azzurri dove gli Spitfire inglesi si scontrano con i velivoli nemici, in quel mare smosso dalla battaglia, nella schiuma bianca che orla la spiaggia, sul volto di Cillian Murphy, che interpreta un soldato salvato in mare da Mr. Dawson, mentre lo implora di tornare indietro, di portarlo a casa: “Io là non ci torno!”.
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Un thriller di guerra
Quasi inevitabile non pensare alla prima mezz’ora di Salvate il soldato Ryan, quello sbarco in Normandia crudo, sconvolgente, spettacolare, che ha fatto scuola e segnato un punto altissimo nel genere bellico e nel cinema tutto, ma in realtà non è questo che Nolan cerca, non è l’orrore dei corpi martoriati, non sono le urla e l’azione così concitata da togliere il respiro. Il regista cerca la tensione, l’angoscia, la sfiancante sensazione di non avere scampo. L’approccio è quasi da thriller: un racconto sempre più teso scandito, a rintocchi, dal suono assordante e spaventoso degli aerei nemici in picchiata (non a caso Hans Zimmer ha composto la colonna sonora campionando e distorcendo proprio il ticchettio di un orologio). Nessuna digressione o distrazione deve allontanare lo spettatore da questa sensazione di angoscia: non ci sono backstories per i protagonisti, non ci sono accenni alla guerra che imperversa in tutta Europa, tutti i dialoghi sono ridotti all’osso, il nemico non solo non viene mai nominato, ma non ha volto (vediamo gli aerei ma non vediamo i piloti, sentiamo gli spari ma non ci viene mostrato da dove provengono; solo sul finale vediamo delle sagome in lontananza). Tutto ciò che conta è la sopravvivenza: non c’è idealismo, non c’è cieco eroismo e anche la morale inizia ad avere contorni sfumati.
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Mio padre è Andrej Tarkovskij, mia madre è Sarah Connor. Onnivora di cinema, ho imparato a memoria IMDB. Vorrei vivere dentro “L’Eglise d’Auvers-sur-Oise” di Van Gogh, essere fotografata da Diane Arbus e scolpita da Canova. Vorrei che Hemingway scrivesse di me, che Hendrix mi dedicasse una canzone e che Renzo Piano mi intitolasse un grattacielo. Per quest’ultimo sono ancora in tempo.
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