Massimo Cantini Parrini: “Il quarto David lo dedico al mio Maestro Piero Tosi”
Last Updated on 12/05/2020
Massimo Cantini Parrini ha conquistato il quarto David di Donatello della sua carriera, grazie al “Pinocchio” di Matteo Garrone. Un premio che lo conferma uno dei costumisti italiani più bravi di sempre. E dire che tutto è iniziato quando, da bambino, frequentava la sartoria di nonna Silvana…

“L’archeologo della moda” fa poker: Massimo Cantini Parrini ha conquistato il quarto David di Donatello della sua carriera, grazie al Pinocchio di Matteo Garrone. Un premio che lo conferma uno dei costumisti italiani più bravi di sempre. Perché, nel suo palmares, si contano anche altri numerosi premi e riconoscimenti quali due Nastri d’Argento e due Ciak d’oro. Anche un European Film Awards, nel 2018, per Dogman.
Nato a Firenze e avviato al mestiere grazie alla nonna materna, di mestiere sarta, Massimo Cantini Parrini inizia a collezionare abiti d’epoca sostenendo che un abito antico non si limita a raccontare la storia di chi l’ha indossato, ma quella della società che gli appartiene. Da questo interesse l’appellativo che apre l’intervista. Oggi Massimo conta più di 4.000 pezzi, che coprono un periodo che va dal 1630 al 1990. Nel suo curriculum, inoltre, un diploma, una laurea in Cultura e Stilismo della moda e il concorso al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma, dove diventa allievo di Piero Tosi nel corso di costume.
Il suo esordio al cinema avviene accanto alla costumista premio Oscar Gabriella Pescucci, che lo chiama a collaborare per oltre dieci anni per grandi produzioni. Tra queste “Sogno di una notte di mezza estate”, “Van Helsing” e “La fabbrica di cioccolato”. Per poi firmare i costumi per più di 36 produzioni, tra cui Il racconto dei racconti, Dogman e Indivisibili.
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Da “Pinocchio”
Cosa ti affascinava di più del lavoro di tua nonna e qual è stato il suo più grande insegnamento?
La passione per il costume, inteso come abito, è nata frequentando fin da bambino la sartoria dove nonna Silvana lavorava. La fascinazione che subivo entrando nella stanza delle stoffe e l’odore che emanavano, è ancora impresso in me. Era una magia vedere i tessuti arrotolati che piano piano prendevano forma sul manichino. Ai miei occhi curiosi, le signore sarte erano delle maghe che dal niente tiravano fuori dal cilindro meravigliose creazioni. Nonna mi ha insegnato la pazienza, è un lavoro, il nostro, dove questa ha un ruolo fondamentale.
Avevi le idee chiare sin da bambino o desideravi fare altro, avevi qualche altro sogno nel cassetto?
Chiarissime da subito, ma non per il mestiere di costumista, bensì per quello di storico del costume. Non avevo idea quando ho iniziato il lungo percorso di studi che la passione per il costume si potesse trasformare in un lavoro che mi avrebbe dato fortissime soddisfazioni. Solo con la scoperta del CSC, Centro Sperimentale di Cinematografia, ho capito che potevo, se ce la mettevo tutta, realizzare quello che da sempre avevo studiato ed ambito a trasformare in realtà: gli abiti d’epoca.
Qual è stato il film per cui hai lavorato che ti ha destato maggiori difficoltà? E quello, tra quelli non premiati, che ti ha soddisfatto di più?
Ogni film piccolo o grande che sia se affrontato con serietà assoluta desta difficoltà. Per me è difficilissimo riuscire a trasformare in realtà tutto il mondo meraviglioso che immagino leggendo la sceneggiatura. L’idea è la benzina che fa partire il mio motore, che mette in moto la macchina. A volte l’idea arriva subito, altre molto tardi. Senza un’idea, una ispirazione, non potrei fare unico ogni lavoro che affronto. Tutto nasce sempre entrando in un museo o un’esposizione d’arte. Ogni progetto è completamente avulso dal precedente, ma sono molto legato a “Che strano chiamarsi Federico”, ultimo film di Ettore Scola. Lavorare con lui è stato toccare il cielo con un dito. E’ un cinema che non esiste più e che solo nei racconti di Tosi prendeva vita. Sono grato di averlo vissuto a pieno, anche se per poco.
Una frase che ti è stata detta e che ti ha reso orgoglioso di quello che fai.
Che nonostante moltissimi premi e riconoscimenti sono il Massimo di sempre. Non ho cambiato una virgola di me: pregi e difetti sono intatti. (ndr, ride).
Sei arrivato al tuo quarto David: a chi lo dedichi quest’anno?
Al mio maestro, a Piero Tosi. E’ mancato da poco e non riesco ad abituarmi al non sentirlo e vederlo più.. Dopo l’insegnamento al CSC è stato un amico per decenni, lunghissime chiacchierate, passeggiate, per ore ed ore senza noia, per un tempo memorabile passato insieme. Manca come mancherebbe l’aria.
Non solo passione e talento, ma anche tanto studio: chi sono le tue fonte d’ispirazione e i libri che tieni sempre sott’occhio?
La passione ed il talendo purtroppo non s’insegnano, sono magie che si concretizzano inconsapevolmente. Sono stato fortunatissimo ad avere una passione da sempre e ad aver avuto una madre che mi ha sempre sostenuto ed aiutato a realizzare i miei sogni. La fonte d’ispirazione la trovo in ogni forma d’arte che mi circonda e la mia biblioteca con migliaia di volumi sulla moda ed il costume che da anni faccio crescere sempre di più. Ma sopratutto la collezione di centinaia di abiti d’epoca che colleziono da quando avevo 13 anni, che studio per nottate intere.
Da “Che strano chiamarsi Federico”
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Di origini salentine, trasferito a Roma per motivi di studio. Ho imparato a leggere a 2-3 anni. Per scrivere ho dovuto aspettare i 4. Da allora non mi sono più fermato. La scrittura è la mia vita, la mia conoscenza, la mia memoria. Nonché il mio lavoro. Che mi aiuta a crescere ed imparare. Per non sentirmi mai arrivato, per essere sempre affamato di conoscenza.
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