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Strappare lungo i bordi, il successo di quel Fantozzi moderno e della gioventù annoiata

Last Updated on 28/11/2021

Strappare lungo i bordi: la storia autobiografica della vita del ragazzo romano conquista così un pubblico tanto vasto quanto bisognoso di emozionarsi ad ogni costo. Zerocalcare trionfa perché ha venduto quindi a quel pubblico il suo biglietto vincente, quello del sentimentalismo.

Strappare lungo i bordi è la serie animata ambientata nel mondo del fumettista Zerocalcare disponibile sulla piattaforma Netflix. La più vista in Italia superando anche Squid game. La storia autobiografica della vita del ragazzo romano conquista così un pubblico tanto vasto quanto bisognoso di emozionarsi ad ogni costo. Zerocalcare trionfa perché ha venduto quindi a quel pubblico il suo biglietto vincente; quello del sentimentalismo.

Il rifiuto dell’Io, la fuga

La seria ripercorre i momenti più significativi della memoria del giovane. In particolare quelli che ne hanno segnato la sua infanzia e la sua adolescenza. È attraverso i suoi occhi che assistiamo così al viaggio nel passato di una coscienza che ora deve fare i conti con una realtà amara. Cioè quella del presente che forse la comodità dell’immaginazione aveva dimenticato. I ricordi del giovane scorrono quindi come immagini di una storia opaca. Eventi di una vita da cui il personaggio stesso prende le distanze, allontanandosene per ritirarsi tra le trincee di una copia mentale dell’esistenza. All’interno della quale è il riflesso del vuoto a disegnare l’immagine del suo ritratto.

I dolori e le gioie hanno così per il nostro affezionato eroe lo stesso sapore, cioè quello dell’assenza. La fuga dalla realtà diviene quindi un non vissuto che non porta qui ad una visione poetica e salvifica del mondo ma alla caduta verso una noia esistenziale. Dove non c’è spazio per i rapporti umani perché sostituiti da quelli vuoti del sé con la sua immagine. Sarà, forse, solo il volto nudo della realtà con le sue tragedie a svelare la piccola insensatezza di quella terra costruita dal rifiuto del mondo e di se stesso.

Un Fantozzi moderno?

La comicità della serie gioca con la profondità dei contenuti alleggerendoli e allo stesso tempo mettendoli a disposizione di un contatto più diretto con il pubblico. È infatti dall’incontro tra le sfumature tragiche e quelle comiche che ci affezioniamo alla storia del personaggio. Una simpatica caratterizzazione sì ma di qualcosa che forse in fondo non lo è poi tanto. Cioè la definizione di un certo tipo di gioventù. Ma chi è quindi che si nasconde dietro le vesti divertenti del nostro Fantozzi moderno? Un simbolo, un modello, un’icona della nostra generazione? No, non è né l’autentica e spontanea rappresentazione naturale della giovinezza né tanto meno il suo fallimento come si vorrebbe far credere. È molto meno. È un personaggio di poco carattere e debole che gira su stesso intenerendo più che conquistando. Quindi né l’espressione di un mondo né quella sintetica di una generazione, Zero è piuttosto la necessità arrogante di dargli questo volto.

Un’umanità triste ed individualizzata

La continua lotta che la serie dichiara alla società, oltre che caricarsi di una chiara connotazione politica, inneggia a tratti alla blasfemia e a quella violenza espressiva giustificata dalla presunta nobiltà del suo fine: risvegliare le coscienze dello spettatore come una doccia d’acqua gelida. Ma il risultato più che un risveglio è quello di una noia che appesantisce l’esistenza e la svuota dell’intimità dei suo segreti più felici per ricondurla sotto la luce di un’umanità sofferta e lenta: Quella individuale che niente ha a che vedere con l’universalità della natura umana. La serie è un piccolo tratto di superficiale psicoanalisi riferita quindi ad un individuo e non alla totalità che vorrebbe rappresentare. Ciò che rende la serie arrogante e pretenziosa è quindi il non tanto sottile desiderio di universalizzare una mentalità depressa. Cioè di proiettare la realtà di Zero nell’immagine comune di gioventù, in particolare quella romana.

Una lotta ipocrita

L’uso stesso del dialetto rimanda ad una generalizzazione dell’espressività dei giovani romani. In un ultima analisi quella che sembrava una valorosa dichiarazione di guerra rivolta ai meccanismi stereotipizzati della società altro non diviene che l’espressione di quella stessa società. Perché paradossalmente alla base della “nobile” lotta sono le armi della stereotipizzazione a portare avanti il gioco. Cioè quelle che incastrano i personaggi all’intero delle loro figure animate ma spente, immagini tristi di un’umanità che non trova se stessa pur rivendicandola attraverso la maschera della profondità. Il giovane uomo non soffre quindi a causa della vita perché rinuncia a viverla; lui è la vittima di una pigrizia che poco ha a che fare con l’espressione del mondo che vive e di coloro che vivono. Perché solo dal confronto reale con la vita nascono le gioie così come i dolori.

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