Thomas Ligotti, Nato nella paura – La recensione del libro
Tra letteratura dell’orrore, filosofia e autobiografia: le interviste allo scrittore illuminano il pensiero e l’opera di un autore di culto. Edizioni Il Saggiatore.

Nato nella paura raccoglie una serie di interviste rilasciate dallo scrittore Thomas Ligotti tra la fine degli anni Ottanta del Novecento e l’inizio del decennio appena trascorso. Il libro, curato dallo scrittore e giornalista Matt Cardin, è ricchissimo di informazioni che approfondiscono la personalità dell’autore di La cospirazione contro la razza umana. Si fa fatica a star dietro a tutti gli spunti che offre il libro (e qui non abbiamo lo spazio per trattarli tutti); quello che emerge però, leggendo queste interviste distribuite cronologicamente nell’arco di più di un ventennio, è la solidità prima di tutto teorica di un autore come Ligotti; le basi letterarie e filosofiche di un autore non certo convenzionale. Da queste interviste, insomma, si riesce a ricavare soprattutto una visione della letteratura compiuta e precisa.
Letteratura dell’orrore e punto di vista narrativo
Già il semplice gioco delle influenze e degli “scrittori preferiti” (una domanda ricorrente in molte interviste, declinata in vario modo) si trascina dietro una serie di questioni teoriche non di poco conto. “A me piace vedere l’autore in primo piano, e il resto sullo sfondo”, si legge in un’intervista del 2006. Ed ecco che forse abbiamo individuato il nodo, il punto di partenza dell’amore per i due autori che sono a fondamento del “canone ligottiano”: Poe e Lovecraft. La letteratura dell’orrore, insomma, è una questione di visione del mondo in prima prima persona, al pari della poesia. Poe e Lovecraft sono autori che “mettevano se stessi in ogni pagina delle proprie opere, che scrivevano come diaristi e poeti lirici”. Da qui la squalifica di molta letteratura di genere. Insomma per Ligotti ci sono due tipi di autori: quelli consapevoli del mondo che raccontano, del quale riconoscono e scrivono l’orrore “universale”; e poi ci sono gli autori di “storie”: commedie, tragedie o incidentalmente storie dell’orrore, in ogni caso consolatorie e rassicuranti. Ligotti sta sicuramente col primo gruppo, con quegli autori che fanno proprio il disperato tentativo di mettere sulla carta lo scandalo e l’assurdità (e l’orrore) dell’esistente.
Il canone ligottiano
In questa visione della letteratura (e della vita) trovano spazio una serie di autori, citati di continuo nel libro, quasi ossessivamente, che davvero fondano un canone (o meglio un anti-canone). Sono scrittori che hanno in comune un modo assai simile di guardare il mondo: tutti hanno visto e sperimentato l’assurdo dell’esistenza e hanno tentato la difficile prova di raccontarlo. Hanno scritto di altri mondi, oppure di sogni e incubi, ma quello che li accomuna è una visione libera dalle illusioni e dalle maschere del quotidiano. Molti sono stati presi per pazzi, molti derisi; pochi capiti nella loro epoca. L’affinità insomma, più che letteraria in senso tecnico del termine e ideale e sentimentale. Filosofica, in una parola.
Una biblioteca weird
Da Kafka a Bruno Schulz (su Ligotti ci offre notevoli pagine interpretative), passando per Nabokov, Bernhardt, Cioran, Borges, il canone ligottiano è ricco e affascinante, e soprattutto rivelatorio. Ci sono i simbolisti francesi (i primi che davvero capirono e amarono Poe) e l’espressionismo tedesco. E poi Samuel Beckett e i poeti metafisici inglesi; c’è l’ultimo Tolstoj (quello post-conversione, l’autore di Resurrezione, che aveva ripudiato Guerra e Pace e Anna Karenina); poi Dino Buzzati e un capolavoro della filosofia primonovecentesca come La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter. E poi c’è Giacomo Leopardi; e il lettore italiano non può fare a meno di comparare alcune affermazioni di poetica dello scrittore americano con il pensiero del recanatese. Una lettura in parallelo che svela come certe menti dialoghino a distanza, nello spazio e nel tempo.
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Un leopardismo radicale
Quello di Ligotti è un leopardismo radicale che non può non farci tornare alla mente il Leopardi demolitore delle “magnifiche sorti e progressive”. È straordinario come questo pensiero s’adatti alla letteratura del soprannaturale. L’horror vero, secondo lo scrittore, è quello senza lieto fine perché ci mette davanti all’indifferenza cosmica dell’universo. Questa è la sua premessa necessaria. Il lieto fine è una concessione romanzesca, un modo per sentirsi dire che va ancora tutto bene. È l’ennesimo esorcismo, l’ennesimo paletto nel cuore; per dirla con Leopardi: l’ennesima illusione. E ancora, Ligotti è assolutamente leopardiano quando dice che “nessuno si accontenta di quello che ha. Vogliamo sempre qualcos’altro […] e quando lo otteniamo vogliamo qualcos’altro ancora e in più. Per noi la soddisfazione non esiste”. E leopardiano è anche quello sguardo ironico che deriva dalla consapevolezza della grottesca tragicità dell’esistenza (“un sorriso che sovrasta paesaggi annientati” per dirla con Cioran, altro autore cardine per l’americano).
Un auto-commento e quasi una confessione
Ma il libro non è solo questo. Da un altro punto di vista queste interviste forniscono un utile corollario a La cospirazione contro la razza umana; in particolare le interviste che approfondiscono il rapporto col filosofo norvegese Peter Wessel Zapffe; o quella del 2012, penultima del libro, che è un vero e proprio trattatello filosofico. C’è poi un puntuale auto-commento a molte delle sue opere di narrativa (alcune ancora inedite in Italia); e soprattutto qualche sprazzo di autobiografia che rende più chiara una figura d’autore che per molto tempo è stata fumosa, complice il mito e il culto che si è creato intorno alla sua persona.
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“Come saremmo colti se conoscessimo bene solo cinque o sei libri”, scriveva Flaubert.
Luca Verrelli cerca di essere un buon lettore.
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