Guercino a Palazzo Barberini: “Et in Arcadia Ego”
La più celebre declinazione seicentesca sul tema della vanitas. La tela del Guercino è attualmente conservata presso la Galleria Nazionale di Palazzo Barberini a Roma.

La più celebre declinazione seicentesca sul tema della vanitas. La tela del Guercino è attualmente conservata presso la Galleria Nazionale di Palazzo Barberini a Roma.
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Cenni sull’origine e la storia del dipinto
“Et in Arcadia ego” è un olio su tela di dimensioni 82×91 cm, realizzato da Giovanni Antonio Barbieri, meglio conosciuto come il Guercino (per via della cecità occorsagli fin dall’infanzia all’occhio destro). Opera giovanile, essa fu eseguita dopo il viaggio veneziano, ma prima del suo soggiorno romano (1621-23). La datazione oscilla tra il 1618 (Mahon) e il 1622 (Wild).
La tela è attualmente conservata presso la Galleria Nazionale di Palazzo Barberini a Roma. La prima menzione dell’opera si trova nell’inventario di Antonio Barberini del 1644 (Lavin 1975, p. 168); nel 1812, poi, il dipinto passò al ramo Colonna di Sciarra, con un’attribuzione esecutiva a Bartolomeo Schedoni, convinzione che rimase fino al 1911, quando lo studioso Hermann Voss la riattribuì a Guercino.
Descrizione iconografica
L’artista eseguì “Et in Arcadia Ego” come declinazione del tema della vanitas, molto durante tutto il XVII secolo. Il dipinto, secondo gli studi effettuati da Mahon (nel 1968), fu concepito inizialmente come bozzetto per l’“Apollo che scortica Marsia” della Galleria Palatina, commissionato dal Granduca di Toscana, nel quale compare lo stesso gruppo di due pastori. Con l’aggiunta del teschio, del verme, del moscone e della scritta “Et in Arcadia ego” l’opera raggiunse successivamente un significato autonomo.
In un paesaggio classicamente arcadico, due pastori si imbattono improvvisamente nella visione di un teschio, posto su un rudere, sul quale è incisa l’iscrizione latina “Et in Arcadia Ego”, ovvero “anche io in Arcadia”, motto con cui si vuole ricordare sia l’onnipresenza nello spazio e nel tempo della morte, persino in un luogo così idilliaco, sia la natura effimera, di fronte alla morte, della gloria del defunto (sottointendendo un “sum”, sono, o un “eram, ero: anche io ero nell’Arcadia, ovvero ne facevo parte).
Un topo, dei vermi, un moscone e una lucertola stanno mangiando i resti di un cranio in decomposizione.
Le due figure umane presenti, i pastori osservano la macabra scena con atteggiamenti differenti: se il primo mostra stupore, l’altro appare invece malinconico e inerme nei confronti della caducità della bellezza terrena e dell’inevitabile destino di morte che soverchia il genere umano. L’iconografia del “memento mori” in ambito pastorale è mutuata dalle Egloghe di Virgilio ed ebbe ampia popolarità in ambito veneziano e romano, a partire dal periodo rinascimentale. Nel caso dell’opera in questione, il topos succitato viene esplicitato, per la prima volta nella storia dell’arte, con l’aggiunta dell’inscrizione (Cola, 1996).
Dove ammirare l’opera
Luogo: Palazzo Barberini, via delle Quattro Fontane, 13, 00184 Roma, Italia.
Contatti: tel +39 06 4814591
Orari: giovedì – domenica 10.00 – 18.00. La biglietteria chiude alle 17.00.
Giorni di chiusura: lunedì, martedì, mercoledì, 25 dicembre, 1 gennaio.
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Ivan Caccavale, classe 1991, storico e critico d’arte. Attratto da forme, colori e profumi sin da bambino, mi sono formato presso il liceo classico. Ho imparato che una cosa bella è necessariamente anche buona (“kalòs kai agathòs”).
Come affermato dal neoplatonismo, reputo la bellezza terrena un riverbero della bellezza oltremondana. Laureato in studi storici-artistici, mi occupo di editoria artistica.