“Il ritorno del Barone Wenckheim” – La recensione
Last Updated on 28/11/2019
Edito da Bompiani, il nuovo romanzo dello scrittore ungherese László Krasznahorkai ci riporta alle atmosfere del suo romanzo più famoso, aggiornate con le inquietudini dei giorni nostri.

Il barone Béla Wenckheim, ormai vecchio, torna nella città della provincia ungherese che gli ha dato i natali. L’anziano nobile è scappato da Buenos Aires, a causa degli innumerevoli debiti di gioco. Una volta tornato in Ungheria il barone spera di ricongiungersi con Marika, un suo amore di gioventù mai dimenticato. Questo rientro in patria, però, ha un effetto dirompente sui suoi concittadini; l’effetto è quello di riaccendere le loro speranze: in lui sembrano vedere una sorta di salvatore, di nuovo profeta che li traghetterà fuori da una crisi che sembra eterna. Ma chi è davvero il barone? Un angelo salvatore? Un ingenuo idiota di dostoevskiana memoria, o l’ennesimo impostore?
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Attese e falsi profeti
Il tema dell’attesa di un presunto profeta salvatore del mondo è assai caro all’autore. In Sátántangó, il romanzo più famoso dello scrittore, due profeti cialtroni arrivavano in un villaggio rurale dell’Ungheria degli ultimi anni del comunismo, promettendo un nuovo sol dell’avvenire. In questo nuovo romanzo, edito da Bompiani, il tema viene aggiornato all’Ungheria di oggi, tra rigurgiti nazionalisti, violenza e crisi globale. Cambiano i tempi ma la disillusione che scorre tra le pagine del romanzo sembra essere la stessa; e le false promesse sono solo aggiornate, al passo con i (brutti) tempi moderni. Questo tema aveva un significato forte negli anni del socialismo reale; oggi torna ancora più potente e il suo angosciante monito è ancora più efficace, perché memore del passato e disperato per il presente e per il futuro.

Grottesco ungherese
Il romanzo, insomma, è un ritratto grottesco e a tratti impietoso dell’Ungheria (ma non solo) di oggi, tra spinte nazionaliste e razziste, intellettuali in crisi, violenza, media voraci e l’infinita attesa per un riscatto che non arriverà mai. Lo stile magmatico, i periodi lunghissimi, fanno da controparte stilistica ad una vicenda tragicomica (più tragica che comica) che si aggroviglia su se stessa. Si attorciglia come la lingua usata per raccontarla. Lo stile di László Krasznahorkai è sempre in bilico tra il barocco horror vacui e l’austerità cinematografica di un lungo piano sequenza. Le lunghe “carrellate” verbali non lasciano nulla di non descritto: pensieri, azioni, situazioni, personaggi. Un alternarsi di punti di vista rende fluida e avvolgente una narrazione che solo a prima vista può sembrare ostica, e invece è solo densa e ricca.
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Un romanzo-fiume
Più che davanti ad uno stream of consciousness joyciano, questa scelta stilistica ci ricorda da vicino i lunghi piani sequenza del cinema del regista Béla Tarr, di cui Krasznahorkai è stato stretto collaboratore. Lo scrittore ha co-firmato le sceneggiature di tutti i film maggiori del regista ungherese, dalla versione cinematografica di Sátántangó fino al suo ultimo capolavoro, Il cavallo di Torino. Il ritorno del barone Wenckheim è un romanzo-fiume, un romanzo-mondo che parla di crisi e di macerie, di grovigli inestricabili ed esistenze apparentemente senza senso. Al di là dei riferimenti specifici è un romanzo che traduce a pieno l’incertezza contemporanea; Krasznahorkai dissotterra uno stile da modernismo maturo, che potrebbe sembrare antiquato, e invece è efficacissimo per descrivere a tutto tondo le inquietudini di oggi.
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“Come saremmo colti se conoscessimo bene solo cinque o sei libri”, scriveva Flaubert.
Luca Verrelli cerca di essere un buon lettore.
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