Raffaele Canepa e la sua fotografia ad infrarossi: “Mio padre mi insegnò un gioco…”
Non solo fotografo affermato, ma anche attento ricercatore e promotore del “nuovo”. Eppure Raffaele Canepa ha iniziato quasi per gioco. L’imprinting glielo diede infatti il padre, con la fotografia analogica, quando era appena un bambino.

Non solo fotografo affermato, ma anche attento ricercatore e promotore del “nuovo”. Eppure Raffaele Canepa ha iniziato quasi per gioco. L’imprinting glielo diede infatti il padre, con la fotografia analogica, quando era appena un bambino. Poi il suo interesse è diventato un gioco. Per poi trasformarsi in una cosa, col tempo, in qualcosa più o meno serio. Nato a Genova nel 1974, si trasferisce a Milano per studiare Economia. Nel frattempo, però, la sua passione diventa lavoro: viene chiamato sul set di uno spot pubblicitario. Un’esperienza sufficiente per capire che quegli studi erano inutili. Che occorreva ricominciare da capo. Per perseguire il suo sogno.
Circa 10 anni fa Raffaele ha iniziato a lavorare come fotografo professionista sui campi da golf. Sia per eventi sportivi che per fotografia di paesaggio. Esplorando così il regno dell’infrarosso e della luce invisibile. Da lì Raffaele ha iniziato ad applicare la tecnica ad Infrarosso alla fotografia di architettura. Fra il 2015 e il 2018 ha realizzato due serie fotografiche, dedicate a Milano prima e a Roma poi, studiando gli effetti dell’infrarosso sui diversi materiali e sulla resa del dettaglio. Negli ultimi anni, tra una mostra e un’altra, riceve menzioni e premi dal Minimalist Photo Award di Teheran, dall’International Photography Award di New York e dal Fine Art Photo Awards.
Oggi Raffaele Canepa è impegnato su tre progetti. Il primo, l’apripista, è Milano>720nm, una serie di scatti sulle architetture più caratteristiche di Milano realizzata all’infrarosso. Ha quindi replicato lo stesso progetto su Roma e su Venezia. Quest’ultima ancora in fase di test per capire la resa dell’acqua all’infrarosso. Inoltre, in questo momento di mobilità ridotta, ha iniziato un progetto di fotografia astratta utilizzando gli oggetti e i set che la casa mette a disposizione, sempre indirizzato verso una ricerca minimalista.
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Cosa è la fotografia per te?
Ricerca e sperimentazione, non necessariamente in questo ordine. Da diversi anni la fotografia ad infrarosso è la cifra stilistica più rappresentativa del mio lavoro. In questo contesto in cui le immagini che realizzo non sono esattamente ciò che il nostro occhio percepisce, la sperimentazione in fase di scatto e di postproduzione mi spinge a cercare di capire come applicare la tecnica al linguaggio. Al contempo la ricerca di nuove forme di espressione stimola la ricerca di nuove soluzioni tecniche. Sono due aspetti complementari che si supportano a vicenda facendo, di volta in volta, l’uno da traino all’altro.
A quando risale il tuo primo scatto amatoriale?
È un ricordo legato alle scuole elementari, per una ricerca sui treni. Mio padre, che mi ha introdotto alla fotografia da bambino, mi ha affidato la sua Nikkormat per andare a fotografare i treni in stazione con poche e semplici raccomandazioni: tenendo l’obiettivo 50mm sempre impostato su f8, dovevo controllare nel mirino che la lancetta dell’esposimetro fosse al centro e che l’indicatore del fuoco fosse allineato. Poco di più rispetto a un moderno sistema point&shoot, ma io mi sentivo già in odore di Premio Pulitzer. Anche se all’epoca non avevo idea di cosa fosse.
Quali tecniche usi per le tue fotografie e quanto impieghi per immortalare il giusto momento?
Scatto praticamente solo fotografia ad infrarosso con macchine che modifico io stesso. Noi non siamo in grado di vedere la luce infrarossa, che viene invece rilevata dai sensori digitali modificati. Utilizzando dei filtri appositi escludo la componente visibile della luce e utilizzo solo quella parte dello spettro che risulta invisibile al nostro occhio. Non so dire se “il momento giusto” è una questione di esperienza, di istinto o di fortuna, ma spesso ti rendi conto di aver colto quel momento solo in un secondo tempo, quando riguardi quello che hai scattato. La postproduzione ha un ruolo fondamentale nella mia fotografia e non di rado mi capita di tornare su vecchi scatti inizialmente abbandonati e successivamente rivalutati in virtù della sperimentazione di nuove tecniche.
C’è qualcosa che sogni ancora di immortalare?
Ho sperimentato l’infrarosso sulla fotografia di paesaggio, sull’architettura e sul ritratto, ottenendo ogni volta dei risultati molto diversi rispetto a quelli che produrrebbe un B&N tradizionale. In questo senso, la mia ricerca prosegue nel capire come i diversi materiali e le diverse condizioni di luce influiscono sull’infrarosso. Un progetto – molto ambizioso – che vorrei riuscire a realizzare è fotografare i vari tipi di deserto in giro per il mondo studiando le diverse condizioni di luce dettate dalla posizione geografica e la resa differente degli elementi naturali che caratterizzano il deserto, sempre in un ottica di composizione minimalista.
Tre opere (tue) a cui sei più affezionato e perché.
È difficile fare una scelta, e la mia classifica è estremamente fluida: nel momento in cui rispondo alle tue domande scelgo UPHILL, scattata nel deserto dell’Oman nel 2017. Amo la composizione minimalista e l’atmosfera lunare; l’annullamento del tempo suggerito dal fatto che sembra contemporaneamente giorno e notte. E c’è un aspetto affettivo in quanto è stata la mia prima foto a ricevere un riconoscimento internazionale.
La seconda scelta ricade su NO TIME per motivi analoghi: la staticità della scena completamente svuotata della presenza umana e simbolicamente riassunta dal dettaglio dell’orologio senza lancette. A tal proposito mi sento spesso dire che si vede il lavoro di fotoritocco e cancellazione per via delle strisce pedonali storte. In realtà quella parte dell’immagine non è stata toccata: le strisce sono state dipinte storte sulla strada.
La terza immagine è LOW KEYS, il ritratto del mio insegnante di pianoforte: è un B&N tradizionale del quale amo il modo in cui la persona ritratta e i suoi gesti sono perfettamente riconoscibili nei pochissimi tratti evidenti.
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Di origini salentine, trasferito a Roma per motivi di studio. Ho imparato a leggere a 2-3 anni. Per scrivere ho dovuto aspettare i 4. Da allora non mi sono più fermato. La scrittura è la mia vita, la mia conoscenza, la mia memoria. Nonché il mio lavoro. Che mi aiuta a crescere ed imparare. Per non sentirmi mai arrivato, per essere sempre affamato di conoscenza.