Emanuele Bissattini: “Nella scrittura come nella vita se possiedi già la risposta vuol dire che hai sbagliato domanda”
Con “Quinto. Non uccidere” pubblicato da Round Robin Editrice si chiude la fortunata trilogia noir che lo scrittore romano Emanuele Bissattini ha dedicato alla figura del killer Ettore detto il Gatto…

“Quinto. Non uccidere” è l’ultimo atto della trilogia noir che Emanuele Bissattini dedica ad Ettore detto il Gatto, il killer che abita Roma come fosse un non luogo e per copertura aggiusta motociclette. Uscito per i tipi di Round Robin Editrice, questo terzo capitolo mantiene le promesse dei romanzi precedenti che hanno suscitato l’interesse del panorama internazionale di crime story, tanto da partecipare alla 14ª del festival letterario Tra le righe di Barga raggiungendo la finale del premio Garfagnana in Giallo – Barga Noir 2021 con il secondo episodio “47. L’oscurità del Golem”.
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La trama del libro
Doveva essere un ricatto e invece è una condanna a morte. “Quinto. Non uccidere” di Emanuele Bissattini si apre con una ragazza di diciotto anni truccata come la bambola di un vecchio bordello che viene portata nella suite di un grande albergo nel centro di Roma e lasciata nelle mani del proprietario, un orco che vuole inciderle nelle carni un’ultima sinfonia. L’uomo non è quello che sembra e nemmeno l’albergo, nelle cui stanze si cela la Sala dei Peccati, in cui si scambiano informazioni con ogni tipo di perversione. Dietro a tutti l’ombra minacciosa del socio del proprietario, Goran detto “Siso”, piombo, crudele braccio armato di Simon “Orecchie” Ionescu, l’uomo che sa chi deve vivere e quando deve morire. Così nonostante Ettore, il Gatto, voglia ritirarsi, una vecchia conoscenza lo mette sulle tracce della ragazza, che nasconde un’altra identità e un altro destino.
Il nostro commento
Nei romanzi della “trilogia di Glock” Emanuele Bissattini mette in scena una Roma grottesca e crepuscolare, che in questa rappresentazione finale contamina la Roma del lusso e della politica con quella nascosta e misconosciuta degli zingari e dei campi Rom, cruda e piena di poesia semplice. Ma l’ultimo capitolo della saga è anche un romanzo familiare che mette i protagonisti davanti alla scelta tra andarsene o restare, e spinge Ettore a rivelare il suo ultimo segreto.
Chi è Emanuele Bissattini
Emanuele Bissattini romano, classe 1977, è scrittore noir, autore e sceneggiatore. Nasce giornalista di inchiesta sociale con il manifesto, l’Espresso e Il Messaggero, e da allora il gusto per gli ultimi e per le periferie non lo ha mai abbandonato. Nel 2017 pubblica con Round Robin il romanzo d’esordio, Glock 17. La pazienza dell’odio, primo volume della trilogia, a cui nel 2018 segue 47. L’oscurità del Golem, finalista al premio Garfagnana in Giallo – Barga Noir. Per Round Robin è coautore di David Rossi. Una storia Italiana (2019) e Il Buio. La lunga notte di Stefano Cucchi (2018). Del 2017 è anche blu32, per Robin Edizioni – Biblioteca del Vascello. Insegna kickboxing e pratica brazilian jiu jitsu e grappling.
Con “Quinto. Non uccidere” uscito qualche settimana fa sempre per Round Robin, termina la “trilogia di Glock”, Emanuele Bissattini ha accettato di parlarne rispondendo alle nostre domande.
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Di cosa parla “Quinto. Non uccidere”? È davvero l’ultimo capitolo di questa trilogia, o torneremo ad incrociare il personaggio di Ettore in altre storie?
Dopo le vicende di 47, il capitolo precedente, Ettore è uscito dal giro, o così crede. Perché una vecchia conoscenza, Laura Mattei, moglie del ricco e potente Leonardo, lo costringe a un ultimo lavoro: trovare la ragazzina cha ha ucciso il marito. E che forse non è chi sembra. La vicenda porterà Ettore a esplorare un misterioso albergo di gran lusso a Montecitorio, la strana corte di un re degli Stracci in una struttura abbandonata a Garbatella, il campo Rom della Monachina… insomma i vari “mondi nel mondo” che sono Roma. Tutti i personaggi di Quinto si sforzano di trovare la risposta a una domanda: “Che cos’è una famiglia?” Quinto è l’ultimo capitolo della trilogia e chiude la vicenda personale di Ettore. Può darsi, però, che continueremo a vedere Sigmund, il suo fedele compare, in azione.
Come si pone quest’ultimo romanzo rispetto all’intera saga che hai raccontato? È possibile che ogni capitolo rappresenti una età differente, una diversa consapevolezza del personaggio Ettore e del suo modo di vedere il mondo e le persone attorno a sé?
Sì, senza dubbio. Glock 17 è il romanzo di un figlio che cerca la verità sul padre, sottrattogli dalla brutalità del mondo attorno a lui. 47 è il romanzo di un uomo perduto. Quinto il romanzo di un figlio che sceglie di diventare padre.
“Quinto. Non uccidere” può essere definito un romanzo di pacificazione? Quanto invece ti senti pacificato tu come scrittore, nel percorso fatto dalla stesura del primo episodio fino a quest’ultimo? Quanto sei cresciuto come persona?
Quando ho finito Quinto, che ha avuto una stesura travagliata – è il libro dalla gestazione più lunga tra tutti quelli che ho scritto – ho pensato “sono tornato”. Non mi sono sentito risolto, né più o meno tranquillo o sereno: solo tornato, come dopo un viaggio lungo, stancante, bello, necessario. Molto pericoloso e tutto in solitaria. Che alla fine ti riporta a casa. Non so se Quinto sia davvero un romanzo di pacificazione, so però che Ettore passa attraverso l’inferno e alla fine arriva da qualche parte.
I libri della “trilogia di Glock” possono essere definiti dei romanzi corali? Come utilizzi i vari personaggi? Come li caratterizzi? Come scegli di volta in volta gli antagonisti e come innovi il rapporto fra Ettore e i suoi aiutanti? C’è un personaggio tra i tanti che preferisci?
Sì, mi piace pensare che i romanzi della trilogia siano romanzi corali, in tutti i sensi: non solo perché rappresentano un coro di personaggi che trova risposte diverse agli stessi, grandi interrogativi – l’amore perduto, la famiglia, il rapporto tra queste cose e l’identità personale, e con la memoria – ma perché spesso ho l’ambizione di rappresentare la strada come un teatro in cui alcuni personaggi assumono la funzione del coro greco, che mette in scena l’istanza morale, l’opinione comune all’interno della tragedia. Questo spiega anche perché ami mettere in scena delle maschere, come quella di Salomone in Quinto.
Ogni antagonista ha una storia a sé. Parto dalla storia, da ciò che voglio che accada, e poi mi chiedo quale “tumore” può peggiorare le cose. Golem, l’avversario di Ettore in 47, è in un certo senso il suo doppio oscuro, un orfano tradito che non ha mai dichiarato la radice del suo amore al suo unico amico, che è stato ucciso. Siso, Piombo, l’antagonista di Quinto, è un escluso, un cane randagio, un “inappartenente”, né zingaro né gage, uno che non vuole nessuno e che vuole farla pagare a tutti.
No, non c’è un personaggio che preferisco agli altri. C’è però qualcuno tra quelli che hanno incrociato la mia strada d’inchiostro che per qualche motivo mi è rimasto più dentro: Momo, l’egiziano di Garbatella; Cola Zingaro. E poi Piccolo Leone Vadim, un personaggio piccolissimo che è riuscito a farmi divertire. Ah, e il Figlio del Predicatore, in 47.
I tuoi personaggi non sono mai monodimensionali, non sono mai “tipi morali” tutto d’un pezzo, eppure sembra non riescano mai a sottrarsi alle loro responsabilità: per ogni valore c’è sempre un costo da pagare. Come costruisci la loro moralità? Come cerchi di metterli in relazione gli uni con gli altri?
Penso che nella scrittura come nella vita se possiedi già la risposta significa che hai sbagliato domanda. Le persone vivono e sbagliano, e applicano un paradigma morale che cambia ogni minuto di ogni giorno. Le persone si confrontano con la morte, con la vita, con le proprie debolezze e con quelle degli altri, con la sensazione che niente sia giusto e che il regista della loro vita sia un sadico bastardo.
I miei personaggi vivono la vita nello stesso modo. Cercano e sbagliano il senso della loro vita e provano a essere ciò che vogliono. Spesso muoiono nel tentativo. Certo, la scrittura non è vita, in senso stretto. Il mio intervento come scrittore consiste nello sbattere i miei personaggi in miniera. Sono tutti pezzi di carbone, subiscono tutti pressioni assurde, qualcuno, alla fine, diventa un diamante.
Scrittura fotografica. Azioni come coreografie. Ritmo musicale. Stile riconoscibile. Costruzione dei personaggi e delle loro storie personali per stratificazione e accumulo. Ti riconosci in queste definizioni? Quali sono le influenze che ti hanno aiutato a sviluppare il tuo modo di scrivere e con quali stimoli cerchi di tenerlo allenato?
Direi di sì. Penso che la chiave sia la parola “memoria”. Una scrittura di tipo fotografico riesce nel momento in cui evoca, invece di descrivere. Le azioni coreografiche funzionano, in un noir, se attivano la memoria fisica, la memoria muscolare dei personaggi. Il ritmo, che è la mia ossessione, come scrittore, è lo strumento più potente in assoluto per creare memorabilità.
Costruire i personaggi per stratificazione implica lavorare sulla loro memoria, e sugli effetti di questa nel lettore. L’ordine, il momento in cui succede qualcosa che cambia o descrive un personaggio è una variabile fondamentale per crearlo. Invertire l’ordine in cui si verificano (o si spiegano) determinati fatti, significa cambiare l’effetto che faranno.
Sono tradizionalmente vicino a alcuni generi letterari e ad alcuni autori. Ci sono influenze, credo, più vistose di altre. Divoro il post-beat americano, mi piace il modo in cui Ellroy lavora sul senso che i suoi personaggi hanno della storia che vivono (essenzialmente non ce l’hanno). Hemingway, la potenza e la grazia. Molta parte della letteratura classica di matrice ebraica, Isaac B. Singer su tutti, con quel suo modo tutto tentativi ed errori di far incontrare gli uomini con Dio. E poi, tutto, è stimolo. Il cinema di Aronofsky e delle sorelle Wachowski, le grandi serie tv… oggi viviamo in un mondo dagli stimoli complessi e non è più concepibile scrivere chiudendosi in una stanza dalle pareti di carta.
Una volta Mirko Zilhay, che è un grande thrillerista e un incredibile traduttore, mi ha fatto un discorso sul suono, sul significato del suono nella costruzione di una storia. Lui era ubriaco, ma quel ragionamento è stato la base del lavoro che ho fatto su Quinto.
Come il lockdown e la pandemia hanno influenzato la stesura di quest’ultimo capitolo?
Quando è iniziato il lockdown avevo appena finito di scrivere il romanzo, ma non di editarlo. Il senso di reclusione forzata, di minaccia, di pressione, di costrizione fisica e di immobilità forzata… sono una parte del sangue nero che scorre nelle pagine di Quinto
Quali sono i nuovi progetti a cui stai lavorando?
Sto lavorando a un altro romanzo, a una storia non di genere noir anche se molto, molto nera, ispirata a un grave fatto di cronaca in cui inciampai come giornalista, molti anni fa. Riguarda il mondo delle carceri e della violenza nascosta. Ho avuto la fortuna di interessare, attraverso questo lavoro, uno dei più famosi editor italiani, che al momento ci sta lavorando.
Vedremo mai la “trilogia di Glock” al cinema o in tv?
Lo spero. Da qualche tempo io e il regista Francesco Castellani stiamo lavorando a un progetto di serie. Abbiamo l’obiettivo di creare un mondo che parta dalla trilogia ma non sia esattamente lo stesso. Diciamo che vogliamo mescolare i fantasmi di entrambi.
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Classe 1977, consulente di comunicazione. Vivo fra Roma e l’Umbria. Prima e dopo la laurea sono passato per varie reincarnazioni: sarto, guerrilla marketer, responsabile ufficio stampa nel settore del trasporto aereo, ghost writer. Mi occupo dello sviluppo di progetti editoriali e organizzo festival letterari. Leggo libri, da scrittore sospeso ne scrivo recensioni.